Da piccola ero una selvaggia. Lumache e trippa al sugo erano i miei piatti preferiti. A pensarci ora mi viene il voltastomaco.
Non avevo nulla in comune con Cosimo, personaggio del romanzo Il barone rampante di Calvino, che un giorno decise di venir meno a tutte le etichette e gli obblighi, compreso quello di dover mangiare le lumache cucinate dalla sadica sorella. “Ho detto che non voglio e non voglio!- e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disobbedienza più grave”.
Io le mangiavo eccome. La cosa grave è che sapevo benissimo la provenienza. Durante i tramonti e le notti piovose e umide andavo con tutta la famiglia a cercare lumache sui muretti a secco o sul ciglio della strada delle vie di campagna. Per noi piccoli era divertente. E divertente era anche vederle cucinare. C’è tutto un procedimento, raccapricciante. Vanno tenute qualche giorno in un recipiente con dei minuscoli fori che permettono all’ossigeno di passare e a loro di non scappare.
Ricordo che quando qualcuna riusciva a fuggire la prendevamo per rimetterla nel recipiente.
Anche la trippa mi piaceva. Mia nonna Maria cucinava spesso questi piatti per farmi mangiare, perché non ero di buon appetito e i pasti diventavano un vero stress per i grandi. Crescendo sono migliorata e di sicuro ora neanche se mi pagassero mangerei delle povere lumachine indifese, men che meno della trippa.
Quanta crudeltà in alcune pietanze.
Quanta crudeltà in alcune pietanze.
Anna Simone